“Ero sola, sull’orlo del fallimento, senza aiuti da nessuno. Gli elicotteri passavano in continuazione sulle nostre teste. Trascorrevo intere giornate a piangere. Sembrava che tutto fosse concentrato a Codogno, eravamo la Wuhan di Italia”.
L’incubo per Anna José Buttafava, titolare di un salone a Codogno, è iniziato il 21 febbraio, due settimane prima che l’emergenza Covid-19 bloccasse il resto dell’Italia. È lì, a Codogno, che tutto ha avuto inizio con il paziente 1. Ed è lì, in quella piccola cittadina in provincia di Lodi, che la gente ha cominciato ad ammalarsi e a morire. Lì per la prima volta tutte le attività hanno chiuso, compreso il salone d’acconciatura di Anna che si è trovata sul lastrico e sola. Adesso racconta la sua storia fatta di incertezze e nessun aiuto concreto.
“Ci sentivamo degli appestati, sembrava che tutto fosse concentrato da noi, in questa cittadina fino a poco tempo prima sconosciuta a tutti. Perfino l’Esselunga fa la pubblicità con il cartello stradale di Codogno in bella vista per trasmettere a tutti che la sua merce arrivava ovunque. Ma non è vero: i corrieri si rifiutano di venire da noi, le spedizioni hanno ritardi biblici. Non ci toglieremo più questa etichetta di untori, non credo”.
Anna non ha superato lo shock iniziale. Dal 21 febbraio a Codogno non è cambiato più nulla.
“Pensavo: e adesso cosa succede? Cosa ne sarà della mia attività? Chi era venuto da fuori nel mio salone nei giorni precedenti al lockdown, mi chiamava per chiedermi se stavo bene… capivo che erano tutti angosciati, che nessuno sarebbe comunque tornato. Ma io avevo 13 stipendi da pagare e non avevo liquidità. Non capivo: qui a Codogno c’è una grossa azienda dell’automotive che lavora in Cina: ci dicevano che loro non avevano smesso di lavorare là, nemmeno nel momento più grave dell’emergenza. Ci spiegavano che avevano preso precauzioni e avevano proseguito le attività. Non capivamo perché qui in Italia avesse improvvisamente chiuso tutto”.
Anna, però, è tra i primi a capire cosa sta accadendo alla gente: a Codogno cominciano a circolare le prime storie degli ammalati tenuti in vita con i respiratori, alcuni parcheggiati fuori dal pronto soccorso.
“Chi aveva preso il virus mi raccontava di subire così tanti prelievi del sangue che alla fine le vene non tenevano più e gli infermieri dovevano inserire le siringhe sotto le ascelle, all’inguine…”.
“Sul piano umano eravamo distrutti: assistevamo attoniti a una invasione di polizia, carabinieri, reparti della guardia di Finanza, esercito, elicotteri. Ma era difficile capire”.
“Aiuti, nessuno. Alla banca ho chiesto un prestito per pagare gli stipendi ai miei dipendenti in attesa della cassa integrazione. Non è ancora arrivato né il prestito né la cassa integrazione. Comincia a circolare la voce che non ci siano soldi per pagarla. L’unico piccolo sostegno mi è arrivato da Aveda, il brand di prodotti che ho scelto per il mio salone: ha annullato tutte le ricevute bancarie”.
Adesso quello che più spaventa Anna, in tutto questo inferno, è il futuro.
“Quando, come riapriremo? Indebitati, costretti ad affrontare una lievitazione incontrollata dei costi, a licenziare necessariamente quasi tutti i nostri dipendenti. Se potrò far entrare una cliente alla volta, non potrò pagare tutti. Già da qualche anno l’economia stagnava e non c’erano grossi margini. Adesso rischiamo il fallimento”.