Riproponiamo un vecchio pezzo di Massimo A. Alberizzi. Ci servirà a riflettere in questo momento difficile e in altri.
Quando incontrai Audrey Hepburn nella sua casa sul lago di Ginevra, il 2 0ttobre 1992, non avrei mai pensato che ci avrebbe lasciato per sempre di lì a poco, il 20 gennaio successivo. Era bellissima nei suoi 63 anni e affascinante molto più di quanto raccontassero di lei: superava qualunque descrizione. Audry era l’incarnazione di una sua frase famosa: “l’eleganza è la sola bellezza che non sfiorisce mai”.
Mi accolse nella sua casa con grande simpatia e affabilità. Ero un estraneo e, nonostante non mi avesse mai visto, mi prese per mano e mi accompagnò in salotto. Ero felice di essere trattato così ma anche imbarazzato. I suoi lineamenti erano segnati: non per l’età e neppure per il male che la divorava e se la stava portando via.
Più che nel volto era sconvolta nell’animo. Coma ambasciatrice dell’Unicef, fondo dell’Onu per l’infanzia, era appena tornata dalla Somalia travolta dalla guerra civile e straziata da una carestia epocale. Parlammo per più di quattro ore. I suoi gesti, la sua armonia nel parlare (alternammo inglese, francese e soprattutto italiano), la sua raffinatezza e il suo garbo mi stavano affascinando. Non mi potevo permettere di innamorarmi di quella dea. Ero lì per fare il mio lavoro di giornalista. Eppure, quegli occhi erano magnetici e i movimenti del suo corpo irresistibili.
Devo confessare che per la prima volta persi quel distacco che deve contraddistinguere un buon cronista.
Quando dopo un paio d’ore di convenevoli in cui parliamo della nostra vita (ma perché, raccontare cose personali e intime a uno sconosciuto?) e passiamo dal “lei” a un più familiare “tu” (in inglese non c’è una gran differenza, ma in italiano e francese sì), affrontiamo la ragione per cui sono lì: un’intervista sulla sua esperienza dell’ultimo viaggio nel Corno d’Africa.
“Per giorni e giorni mi ero preparata a un’esperienza del genere. Avevo pensato e ripensato e letto un mucchio di documentazione, ma non c’è stato nulla da fare. Non ci si può preparare a un viaggio nell’inferno. In Somalia – esordisce l’incantevole protagonista di tanti film che hanno fatto sognare una generazione – si sta consumando un olocausto, con la gente che aspetta soltanto di morire. I documentari, le fotografie, i giornali non riescono a dare una dimensione esatta della tragedia, che è peggiore di qualsiasi descrizione. Il Paese ha bisogno di aiuto e va aiutato, non riesco neppure a esprimere quel che sento. Non trovo le parole, né in inglese, né in italiano, né in francese”.
Poi racconta d’un fiato: “Il mio areo è sceso a Chisimaio, una sabbia rossa, secchissima. Siamo andati a visitare i campi profughi e i villaggi. Mi sono accorta che case e capanne erano circondate da piccole dune. Dapprima non ci ho fatto caso, poi mi hanno spiegato: erano tombe. Ne ho viste ovunque; lungo i fiumi, a ridosso dei sentieri. Sparse qua e là. Durante il mio viaggio sono arrivate le piogge e le tombe si sono letteralmente ‘sciolte’. I cadaveri sono tornati alla luce contaminando l’acqua che li trascinava”.
L’eroina di “Sabrina”, “My fair lady”, “Colazione da Tiffany”, “Vacanze romane” parla con voce rotta dall’ emozione. “I temporali invece della vita hanno portato la morte. Malattie, infezioni e poi il freddo cui tante persone non hanno resistito. Molti vivono senza un tetto e le poche capanne rimaste in piedi non sono più coperte di paglia come una volta. Ora sono piene di buchi”.
Le lacrime solcano le guance quando passa a parlare dei bambini, certo i più colpiti dalla fame e dalla guerra. “Sono scheletrini viventi con incastrati due occhi. Aspettano solo di essere nutriti, non hanno emozioni. Se gli passi una mano davanti al viso non reagiscono, lo sguardo resta fisso nel vuoto. Colpisce poi l’innaturale silenzio, assoluto, che c’è accanto a loro. Questi bimbi non parlano, non ridono, non scherzano come i loro coetanei nel resto del mondo. Sono traumatizzati dalla fame. Oh, che voglia di abbracciarli, accarezzarli! Ma toccandoli hai paura di fargli male quasi il loro corpo fosse sul punto di disintegrarsi, di diventare polvere”.
“In un campo di Chisimaio – ricorda ancora commossa l’ambasciatrice dell’ Unicef – ho notato che non c’erano bimbi sotto i 10 anni. Come mai? Ho chiesto. Mi hanno risposto che erano tutti morti. D’altra parte, sotto un albero c’erano due piccoli sorridenti. Mi sono detta: “beh, finalmente”. Sono andata vicino e mi sono seduta accanto. Parlavo, ma loro non mi sentivano, continuavano a sorridere; poi mi sono accorta che erano legati alla pianta. Il padre, accasciato lì accanto ma ancora in vita, ha spiegato che doveva far così, altrimenti si sarebbero allontanati senza trovare più la strada del ritorno. Non riconoscevano più nessuno, traumatizzati com’erano dall’omicidio della madre, sventrata in loro presenza, e dai tanti assassinii cui avevano assistito”.
“Forse Dio ha tanto da fare in questo periodo che ha scordato la Somalia – mormora scuotendo la testa l’affascinante attrice . Colpisce non tanto la morte, che forse conduce a un mondo migliore, quanto la sofferenza. E per morire di fame le sofferenze devono essere atroci. Le immagini che ho visto in questi giorni mi ossessionano. Se chiudo gli occhi mi sfilano davanti come in un film. Non riesco più a dormire. Talvolta, di giorno, mi appisolo. Ma di notte no, non posso”. Audrey Hepburn sottolinea poi l’importanza delle organizzazioni umanitarie. “Sono l’unico ostacolo posto tra questa povera gente e la morte”.
Poi usa una metafora. “Tengono la testa a galla a chi è completamente immerso nelle sabbie mobili. Ma è difficile che resistano all’infinito. Mancano i soldi, i mezzi, le strutture e anche gli operatori son pochi. È necessario un appello a tutto il mondo, ai singoli perché reagiscano e mandino aiuti a chi aiuta”. “Certo. ammette – in Occidente c’è la crisi, specie in Italia (siamo nel 1992, ndr) ma qui si tratta di salvare un popolo intero che rischia di essere cancellato dalla faccia della terra. Con un piccolo, piccolissimo sacrificio in più ciascuno di noi potrebbe far tanto. E prima di tutto vanno salvati i bambini. Senza di loro sarà impossibile ricostruire la nazione somala. Sarebbe un genocidio sulla coscienza di tutto il mondo”.
Le sue parole in quel lontano 1992 non sono state ascoltate. La Somalia da lì a poco sarebbe sprofondata nel caos e dopo meno di trent’anni lo è ancora.
Massimo A. Alberizzi
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